HORROR AD ALTA QUOTA – Tragedia o miracolo sulle Ande

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Può una storia conosciuta come LA TRAGEDIA DE LOS ANDES essere allo stesso tempo anche un miracolo? Dipende se a raccontarla sono i sopravvissuti allo schianto di un aereo.

C’è un film del 1993 intitolato Alive – Sopravvissuti disponibile su Prime Video che ripercorre la terribile vicenda che vi racconto oggi.

Questa storia ci riporta al 13 ottobre 1972 in Uruguay ed è conosciuta come la tragedia de los Andes o il milagros de los Andes.

Una delle squadre di rugby più forti dell’Uruguay, l’Old Christians Club, fondata nel 1962 a Montevideo, doveva recarsi in Cile per giocare una partita. Decisero, quindi, di noleggiare un aereo per 1’600 $, il charter 571 Farchild FH227D, un aereo abbastanza nuovo: era stato costruito quattro anni prima e aveva percorso meno di 800 ore di volo. Si trattava di un velivolo appartenente all’areonautica militare uruguaiana che in quegli anni noleggiava i propri aerei per cercare di far fronte ai problemi finanziari.

Una partenza turbolenta

L’aereo decollò il 12 ottobre 1972, con a bordo 45 passeggeri tra i quali: 19 rugbisti, 5 membri dell’equipaggio e altri passeggeri che per i più disparati motivi dovevano raggiungere il Cile. A causa del maltempo però dovette fermarsi in Argentina per ripartire il giorno dopo quando le condizioni atmosferiche sarebbero migliorate.

Il 13 ottobre 1972 ripartirono alla volta di Santiago del Cile. A fare da barriera lungo il tragitto c’era la maestosa catena montuosa delle Ande, che vanta vette di oltre 6’000 metri.

Ora, il tempo era migliorato rispetto al giorno prima ma comunque non era dei migliori e così anche la visibilità risultava ridotta. In aggiunta l’aereo non era un velivolo di linea e quindi non poteva raggiungere quote molto alte. Questo non lasciava molto scarto dalle montagne e va da sè che avrebbe dovuto seguire una rotta calcolata alla perfezione per evitare spiacevoli incidenti.

L’aereo si posizionò a 5’486 metri, al di sopra della coltre di nubi che nascondeva montagne, paesaggio e qualsiasi punto di riferimento visibile. La posizione veniva calcolata facendo una stima della velocità e dei chilometri percorsi. Un’approssimazione tutt’altro che affidabile, tant’è che i piloti, non tenendo conto del vento sfavorevole che aveva rallentato la velocità di crociera dell’aereo, erano convinti di essere più avanti rispetto alla loro reale posizione. Pensavano, quindi, di aver superato il Passo Planchòn e di essere già in prossimità dell’aeroposto cileno. Questo grossolano errore li portò ad iniziare le operazioni di discesa troppo presto.

Lo schianto

Quando i piloti iniziarono le manovre di atterraggio, si trovavano ancora in territorio argentino e ancora sulle Ande, che erano completamente coperte dalle nubi e quindi non visibili ad occhio nudo. Si accorsero dell’errore quando ormai era troppo tardi ed erano già scesi a 4’200 metri di quota.

L’ala destra urtò contro la parete della montagna spezzandosi e portando via con sè tutta la coda e la porzione posteriore dell’aereo, trascinando nel vuoto i passeggieri.
Senza più un’ala l’aereo era fuori controllo e precipitando perse anche l’ala sinistra lanciando la fusoliera nella neve come uno slittino. La neve attutì l’impatto e decellerò ciò che rimaneva dell’aereo fermandolo a 3’657 metri slm.

Tuttavia le informazioni lasciate ai soccorsi dal capo pilota poco prima di morire erano errate: per prima cosa non erano in Cile ma in Argentina nella provincia di Mendoza e in più non si trovavano a 2’000 metri come segnalato dalle strumentazioni dell’aereo, probabilmente danneggiate dall’impatto. Anche l’altro pilota dette ai superstiti informazioni sbagliate sulla loro posizione prima di morire pochi giorni dopo l’impatto.

Dalle successive testimonianze rilasciate dai sopravvissuti, sappiamo che nei giorni seguenti al tragico incidente morirono più di quindici persone in seguito ai gravi traumi riportati durante l’incidente. I rimanenti erano per lo più giovanissimi, sotto i vent’anni senza indumenti a proteggerli dal freddo e senza esperienza di alpinismo e alcuni con arti rotti e lesioni varie che cercavano di alleviare tenendoli nella neve. A questo si aggiunse il fatto che non conoscessero minimamente la loro posizione. Ma se la fortuna è cieca, la sfortuna ci vede benissimo e il ghiacciaio sul quale erano atterrati si trovava in un punto così remoto delle Ande da non avere ancora neanche un nome.

Capirono ben presto che avrebbero dovuto fare qualcosa per sopravvivere. Il primo compito sulla lista era eleggere un leader che li avrebbe guidati in questa terribile esperienza. Venne scelto Marcelo Pérez, il venticinquenne capitano dell’Old Christians Club.

Sopravvivere a 3’000 metri

Per proteggersi dalle temperature rigide allestirono un rifugio all’interno della fusoliera con coperte e valigie a chiudere il varco. Oltre al freddo, però, c’era un altro problema a cui far fronte: il cibo. A più di 3’000 metri, circondati da nient’altro che neve non era facile trovare qualcosa da mangiare e tutto ciò che avevano a disposizione era: otto tavolette di cioccolata, cinque tavolette di torrone, alcune caramelle sparpagliate sul pavimento della cabina, di pochi datteri e prugne secche, di un pacchetto di cracker salati, di due barattoli di vongole, di un barattolo di mandorle salate, e di tre vasetti di marmellata: uno di pesche, uno di mele e uno di more, e poco altro trovato nei giorni successivi in ciò che rimaneva della coda dell’aereo. Il cibo stava finendo e le temperature rigide avevano conservato i cadaveri dei loro compagni di viaggio. Questo li mise presto in una brutta situazione, quella di dover decidere cosa erano disposti a fare per la loro sopravvivenza. I soccorritori li cercavano da tutt’altra parte, ma anche se avessero avuto la posizione esatta avrebbero avuto difficoltà a trovare una fusoliera bianca in mezzo alla neve. Questo lo capirono ben presto anche i supersiti del volo che dovettero fare tutto il possibile per sopravvivere.

Erano passate due settimane e le persone ancora in vita erano ventisette. Poco dopo, però, verso la fine ottobre, vennero travolti da una valanga che portò via otto di loro, compreso Perez. Rimasero in diciannove e dovettero rintanarsi per quattro giorni nella fusoliera per proteggersi dalla violenta tempesta che causò altre valanghe. Quando il vento cominciò a diminuire decisero di organizzare una spedizione in cerca di soccorsi.

Furono scelti tre mombri che avrebbero fatto parte di questa importante missione: Nando Parrado, ventiduenne rugbista e studente di agronomia che dopo l’incidente aveva visto morire madre e sorella e che nei primi giorni dopo lo schianto era stato dato per spacciato, il diciannovenne Roberto Canessa, anche lui rugbista e uno dei due studenti di medicina a bordo.

Le spedizioni

Partirono il 15 novembre ma presero una strada sbagliata e furono costretti a tornare alla fusoliera con il morale a terra e il nervosismo alle stelle. il 23 novembre ripartirono, ma ancora un volta senza successo. Rimasero otto giorno chiusi nella coda dell’aereo a frugare tra i bagagli senza però riuscire a trovare una soluzione. Nel frattempo altri compagni morirono per gangrena e malnutrizione gettando il morale dei rimanenti ancora più sotto terra. Fortunatamente non si diedero per vinto e il 12 dicembre, due mesi dopo l’impatto, partì la spedizione decisiva verso il Cile. Parrado e Canessa scalarono – e furono probabilmente i primi a farlo – una montagna di 4.650 metri e in dieci giorni percorsero oltre sessanta chilometri. Avevano attrezzature scarsissime e indumenti improvvisati, alcuni dei quali recuperati, diversi giorni prima, quando in una esplorazione i superstiti avevano trovato la coda dell’aereo, alcuni cadaveri e qualche valigia. Non avevano mappe, non avevano una bussola e gran parte di quel che credevano di sapere sulla loro posizione e direzione era sbagliato.

Litigarono anche su quella che Canessa credeva potesse essere una strada e che Parrado sosteneva invece non lo fosse. Lo era, una strada, e se l’avessero presa avrebbero quasi di certo trovato prima qualche soccorritore, ma andarono invece in un’altra direzione.

Arrivarono comunque in una vallata e, seguendo il fiume che ci scorreva, trovarono infine mucche al pascolo e dopo un paio di giorni qualcuno che li soccorse. Quando Parrado e Canessa raggiunsero la valle pesavano solo 44 chilogrammi, erano malnutriti ed esausti.

L’arrivo dei soccorsi

Arrivarono in aiuto anche i militari cileni con un elicottero per cercare i supersititi. Parrado nonostante la stanchezza accumulata nei emsi precedenti, salì con loro sull’elicottero per indicare la strada ed agevolare la localizzazione della fusoliera tra la neve. Alcuni furono portati in salvo il 22 dicembre, altri il 23 dopo una notte che alcuni soccorritori scelsero di trascorrere al loro fianco. Erano passati 72 giorni dal giorno dell’incidente quando finalmente i sopravvissuti riuscirono ad essere portati in salvo e tirare un sospriro di sollievo.

Quello che avevano vissuto però li avrebbe accompagnati per tutta la vita. Le notizie della loro tragica avventura fecero presto il giro delle maggiori testate giornalistiche che non risparmiavano dettagli spiacevoli come gli atti di cannibalismo cui erano stati costretti per sopravvivere.

La prima volta che i sopravvissuti ne parlarono pubblicamente fu il 28 dicembre, cinque giorni dopo il loro salvataggio. Scelsero però di non utilizzare il termine che tanto stava facendo scalpore nell’opinione pubblica, ma parlarono di antropofagia in quanto sostenevano di non aver mai tolto la vita a nessuno per poi cibarsene. Oltre al fatto che non si sono mai cibati della carne di parenti o amici degli altri sopravvissuti.

Noi possiamo solo provare ad immaginare cosa devono aver passato durante quei 72 giorni isolati a più di 3’000 metri, senza la certezza che sarebbero sopravvissuti, vedendo uno dopo l’altro i loro amici e compagni morire. Canessa ha affermato:

Le persone dicono “sei sopravvissuto mangiando altre persone”. Ma per me non fu la cosa più difficile. Penso che riuscimmo a sopravvivere perché eravamo una squadra e perché riuscimmo a andarcene da quel ghiacciaio. La notte dopo la valanga, quando sentivamo la montagna muoversi ed eravamo terrorizzati di essere sepolti vivi nella neve, fu peggiore del tormento dovuto al mangiare carne umana

Questa storia mi ha ricordato un’altra storia della quale vi ho parlato in un video: La Spedizione Donner

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